Dominò per cinque anni il campionato italiano: un monologo per il Torino, una teoria di scudetti color granata, con Juventus e Inter a fare da primi avversari. Dal 17 gennaio 1943 al 30 aprile 1949 il Filadelfia rimase imbattuto: 93 partite con 83 vittorie e dieci pareggi. Erano i campioni più amati dall'Italia sportiva. Poi, improvviso, il tiro crudele del destino: scompare un gruppo di ragazzi che è vissuto insieme per un tempo troppo breve.
Pomeriggio del 4 maggio 1949. La primavera tarda al Nord e nebbie basse sporcano ancora i tramonti. Il cielo è cupo, fa freddo. Le nubi incombono basse e cupe, color inchiostro; la pioggia cade a ondate, sferzata dal vento. La sera ruba spazio al pomeriggio, la visibilità è di trenta metri, Torino sembra avvolta da un'ombra di malinconia, quasi un presagio. L'aereo del Torino, un trimotore Fiat proveniente da Lisbona, sta atterrando. Alle 17,07 , improvvisi, un boato e uno scoppio, come una folgore. L'apparecchio si schianta contro il colle della Basilica di Superga e si incendia. Non ci sono superstiti. «Che le nubi e i venti ci siano propizi e non ci facciano troppo ballare», così chiudeva il servizio del giornalista Luigi Cavallero, una delle 31 vittime, trasmesso dall'aeroporto di Lisbona a un quotidiano della sera.
Il Paese è stordito. L'emozione è immensa, e poi confusione, lacrime, cordoglio, disperazione. Dolore e amore sono complementari e nessun lutto è nazionale come la scomparsa del Grande Torino. Tutta la pietà d'Italia si stringe attorno ai caduti, alle loro mogli e ai loro bambini. I tifosi si trovano affratellati nel dolore. Il Torino è la più forte squadra d'Europa, la bandiera del calcio italiano, una gloria nazionale in un Paese che non ha glorie. Ha vinto quattro campionati consecutivi, stava per vincerne il quinto. I ragazzi recitano la formazione a memoria: Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Erano giovani, sani, amici fra loro, leali, bravi ragazzi e il destino li ha portati via in un colpo. «Sono caduti come soldati - scrive "La Stampa" - spensierati, semplici, colti a tradimento sulla soglia dell'accampamento. E ci sorgono spontanee nella memoria le parole con cui i soldati ricordano i loro caduti: erano giovani, la loro vita non ritorna più».
Nei poveri brandelli di carne il vecchio Vittorio Pozzo, chino sotto il peso del dolore, cerca a uno a uno i visi dei suoi ragazzi chiamandoli sommessamente come per l'appello di un'ultima partita. Tocca a lui, l'ex commissario della nazionale, riconoscere i cadaveri. Maroso lo individua dalla cravatta, l'unica cosa che di lui sia rimasta. Indro Montanelli, sul "Corriere della Sera", li saluta con un articolo intitolato: "Nel grande stadio dell'aldilà Mazzola passa a Gabetto". Ai funerali seguiranno le bare in trecentomila. Con loro, idealmente, ci sono gli occhi rossi dei ragazzi d'Italia. Sul colle di Superga viene murata una lapide che li ricorda e tramanda la leggenda della squadra che non perdeva mai. Per molti anni sarà mèta di pellegrinaggi. Ma il tempo passa, i ricordi sbiadiscono e le visite si fanno sempre più rare. Forse perché il 1949 è lontano o forse perché il calcio, oggi, è un'altra cosa.
(da IL SOLE 24 ORE.IT)
La squadra più forte di tutti i tempi.
Non dimentichiamo.
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