Perché Umberto Bossi non ha mai minacciato di rivolgere i suoi fantomatici fucili leghisti contro i Kalashnikov della camorra? Perché sempre contro «Roma ladrona», contro la sinistra statalista?
Contro la «canaglia immigrata» e mai contro le organizzazioni criminali autoctone che affliggono l’Italia?
La domanda mi assilla per buona parte della visione di Gomorra. L’interrogativo rimbalza come un’eco cavernosa in un’enorme sala quasi completamente vuota. E’ sabato pomeriggio di un fine settimana piovoso eppure saremo al massimo trenta o quaranta a vedere il superbo film che Matteo Garrone ha tratto dal libro di Roberto Saviano. Le altre mille poltroncine rosse sono rimaste vacanti. La passione civile per la piaga camorristica pare essersi arrestata al di sotto della Linea Gotica. La gente dell’hinterland milanese sembra accendersi per altro, per l’Inter che si gioca il campionato, per il federalismo fiscale o per i campi nomadi da sgomberare. Oggi il film verrà proiettato in concorso al festival di Cannes, preceduto dall’aura del capolavoro, ma io lo vedo in un multiplex alla periferia Nord di Milano - zona Bicocca -, diciotto sale inglobate in un mastodontico centro commerciale dove trascorre il suo intero weekend il nuovo proletariato suburbano, i figli adolescenti di ciò che un tempo furono le borgate, gli uomini e le donne di ciò che un tempo fu la classe operaia e le non-persone della nuova massiccia immigrazione. Proprio di fronte allo shopping center, a fare memoria, sorge la torre delle scomparse acciaierie Breda. Muta, solitaria, inconsolabile, più che rammentargliela, sembra voler rinfacciare all’edificio simbolo del nuovo proletariato la storia cancellata di quello vecchio.
Siamo nei giorni in cui il risentimento del Nord, dopo aver covato sordo per anni, dopo essersi fatto forza di protesta sociale implosiva, dopo esser giunto a conquistare il palazzo di un troppo lungo inverno della politica, arriva infine a esplodere in forme aperte di intolleranza sociale. Mentre mi scorrono davanti agli occhi queste immagini di assoluta maestria formale - ogni inquadratura un dipinto, ogni angolo di ripresa un inappellabile giudizio sul mondo - nella mente mi riecheggiano i proclami con i quali si plaude agli assalti ai campi nomadi. Com’è possibile, mi chiedo, che i nuovi leader dei ceti popolari settentrionali chiamino allo stesso tipo di aggressione compiuta nei giorni scorsi nel Napoletano dai camorristi (con i quali, è bene sottolinearlo, non hanno niente a che fare sul piano sociale, culturale, antropologico)? Com’è possibile che genti tanto diverse si trovino sulla stessa linea d’azione? Non dovrebbero stare uno contro l’altro, muoversi guerra? «Finalmente! Era ora!». Questo l’unico commento che uno degli spettatori a me vicini si lascia sfuggire quando, dopo quasi due ore di proiezione, per la prima volta si vede la polizia intervenire tra le «vele» di Scampia, la più grande centrale di spaccio d’Europa. E, allora, perché non organizzare ronde anti-camorra? Il comprensibile risentimento del Nord, della mia gente impaurita, sradicata, operosa, se proprio deve trovare un canale di sfogo, un nemico altro da sé, perché non lo trova nelle varie piovre che allungano i loro tentacoli a soffocare l’intero Paese? Sarà forse perché, come mostra il film, anche un certo Nord ha lucrato sul degrado di un certo Sud? No. E’ una risposta emotiva, troppo parzialmente vera per essere convincente. La stragrande maggioranza degli elettori leghisti o forzisti del Nord non hanno nessuna connivenza con quei sistemi criminali.
Una prima risposta la trovo uscendo dalla sala: la risposta è il centro commerciale. Chi vive in queste cattedrali sorrette dall’aria condizionata, nelle quali ogni gerarchia, ogni ordine, ogni ipotesi di senso è sostituita dall’accumulo di merci, ogni identità dalla proliferazione di marchi, ogni materialità dal profluvio di immagini, chi vive qui non sa più misurarsi con la sovranità agita, con la drastica decisione politica. I leghisti tutto sommato sono gente mite, la loro aggressività è teatro mediatico. In questo microcosmo commerciale dove le merci si cumulano proprio come le scorie si cumulano nelle discariche abusive mostrateci dal film, in questo junkspace impolitico la facoltà critica di muovere guerra al proprio vero nemico è rimossa in nome del comfort e del piacere. Nessuna guerra alla camorra proverrà mai da qui. Il Paese è spaccato tra chi la violenza la compie o la subisce e chi la sta a guardare sullo schermo.
Ed è a causa di questa inerzia antropologica nei confronti della sopraffazione che l’Italia è spaccata, non tra destra e sinistra, non tra Nord e Sud, non tra italiani e immigrati, ma tra Paese legale e Paese criminale, tra chi infligge la crudeltà e chi la patisce. Una faglia sismica che spacca in profondità la terra sotto i nostri piedi lungo una linea dai bordi incerti e frastagliati ma comunque intrisi di sangue.
Grazie alla sua impagabile capacità di de-epicizzare la violenza criminale, Gomorra di Matteo Garrone potrebbe essere per la mia generazione ciò che Roma città aperta fu per quella dell’immediato dopoguerra. Temo purtroppo che non lo sarà: questo nostro Paese dilaniato non sembra più pronto a combattere la sua guerra contro il suo vero nemico.
Lo scrivemmo quando Roberto Saviano venne messo sotto scorta e lo riscriviamo ora: finché l’Italia non avrà combattuto e vinto i poteri criminali rimarrà una democrazia incompiuta.
ANTONIO SCURATI
(da la stampa.it)
Concordo dalla prima all'ultima riga.
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